DANNO CONCAUSATO DA FATTORI UMANI E NATURALI: TRA DIRITTO E HYBRIS

È il gennaio del 2009 e giunge alla Suprema Corte un caso che obbligherà gli ermellini a fare conti con il tema giurisprudenziale più travagliato del secolo. 

È la vicenda di un paziente che sottoponendosi ad un’operazione di simpaticectomia lombare muore per infarto tre giorni dopo un’agonizzante emorragia.

In primo grado la domanda di risarcimento avanzata dai famigliari trova accoglimento. In secondo, invece, no. È fondamentalmente una la questione di diritto su cui si fonda il ricorso del terzo grado: la violazione delle disposizioni sulla causalità.

Per un lungo periodo la giurisprudenza e la dottrina avevano risolto il problema della responsabilità civile per mezzo delle disposizioni del Codice penale. E queste propendono per la totale irrilevanza della situazione pregressa del danneggiato, salvo il caso in cui essa assurga a fattore interruttivo tra l’atto o l’omissione e l’evento. Ne seguiva un risarcimento pieno ed indipendente dall’incidenza eziologica del danneggiante a monte, con ristoro del pregiudizio subito sia per la porzione imputabile al medico, sia per la porzione imputabile al paziente. 

La morte del paziente nel caso del 2009, secondo le perizie medico-legali, è dovuto certamente per minima parte a colpe mediche, ma in modo preponderante soprattutto all’estrema labilità delle pareti protesiche dell’aorta del paziente, capaci già di per sé di spiegarne l’evento morte.

Eppure, nel 2009 si cambia rotta: ci si scontra in modo diretto con l’iniquità del risultato finale dell’all or nothing e si accoglie un nuovo modello, con risarcimento proporzionale alle colpe dei rispettivi autori nella causazione dell’evento dannoso. Il nuovo modello prende il nome di “frantumazione del nesso di causa”, in quanto non si tratta già più di un’icastica sussistenza della relazione intercorrente tra atto od omissione ed evento, né più di una semplice condicio sine qua non, bensì di una sussistenza parziale e di un esame controfattuale che per la prima volta aspira anche a fornire la risposta al perché in rerum natura.

Lo aveva intuito già autorevole dottrina: il cuore dell’articolo 1227 del Codice civile – tra gli altri – impernia danneggiante e danneggiato su un’identità sostanziale di posizione. Entrambi portano sulle loro spalle una porzione di danno, cosicché nel primo verso all’aumentare del contributo del primo aumenta anche il risarcimento e nel secondo verso, invece, all’aumentare del contributo dell’altro il risarcimento diminuisce.

Tuttavia il modello equitativo – proporzionale verrà disatteso dalle pronunce successive, tanto per motivi morfologici, ossia la cristallizzazione di un nesso di condizionamento puro, quanto per motivi funzionali, ossia l’esorcizzazione di gestione di processi troppo lunghi e complessi.

Nelle pronunce successive, in particolare nel 2011, si scriverà, infatti, che l’unico caso di responsabilità proporzionale contemplato dal nostro ordinamento sia quello di un fatto imputabile per dolo o colpa al danneggiato e non certo, pertanto, il caso di situazione patologica pregressa, benché poi la Corte Costituzionale nel 1984 abbia avuto anche modo di rilevare il contrario.

Ad oggi, la concausa di lesione – rilevando sul profilo causale materiale – è priva di esito di significazione giuridico, anche per motivi legati all’equivalenza delle cause e alla regola della preponderanza dell’evidenza. Essa rappresenta, anche per ammissione di coloro che l’hanno elaborata, l’ennesima flessibilizzazione del sistema a favore di una parte del rapporto obbligazionario.

Non il contrario può dirsi, però, anche del modello proporzionale del 2009, il quale avvalendosi di un’applicazione estensiva del criterio equitativo riconosce all’organo giudicante anche la possibilità di condannare il danneggiante non tanto per aver egli posto in essere una condotta che cagiona un danno, quanto piuttosto anche per aver egli posto in essere una condotta che talvolta – con criterio di accertamento inferiore perfino alla preponderanza dell’evidenza – aumenta il rischio del prodursi dell’evento.

Due modelli, quindi, l’uno causale giuridico unitario più rispettoso del sistema, l’altro, maggioritario, un po’ meno, ma entrambi elaborati per risolvere un problema con particolare occhio di riguardo al danneggiato, benché poi i principi di diritto propendano per la parità di trattamento. 

È l’ esempio dell’estrema controvertibilità del sistema normativo nella contemporaneità, che ammette applicazioni differenti per le medesime disposizioni, senza bisogno che nel mentre esse mutino. O forse, più semplicemente, modalità risolutiva del problema coniata per evitare la messa in atto di una forma di hybris nei confronti di vicende troppo delicate per essere affrontate unicamente con la logica giudica. 

Chissà, tra l’altro, quali saranno i futuri risvolti per tutte le pretese risarcitorie da danni da pandemia, considerato anche e soprattutto che coloro i quali hanno subito i maggiori danni presentavano, nella maggior parte dei casi, significative patologie pregresse.

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